Dal Convegno nazionale: giustizia riparativa, paradigma di perdono per ciascuno
DI IDA NUCERA
Anche questo 49° Convegno Nazionale della Cvx in Italia, a Roma, dal titolo “Riconciliazione, porta della speranza”, è stato un momento di straordinaria intensità e immersione dentro tematiche cruciali del nostro tempo. Per non disperderne i frutti e smarrire gli orizzonti saggiati, le sollecitazioni colte chiedono di essere esplorate e approfondite.
Giustizia riparativa
Un focus sull’intervento Giustizia ripartiva: una via di riconciliazione tra fratelli, trattato da padre Guido Bertagna S.I., Adriana Faranda e Agnese Moro. Quest’ultima non era presente per motivi di salute, ma la visione del filmato di pochi mesi fa, di grande impatto, ha fatto cogliere la prossimità di due donne che sono state anni luce distanti.
Incontrare questi testimoni coinvolti in un cammino impensabile, eppure realizzato anche grazie a padre Guido, ci provoca per diversi motivi. Per primo, il dato storico.
Ci siamo chiesti: io, durante il rapimento Moro, dove mi trovavo? Chi frequentava il liceo o l’università, i più giovani ne hanno fatta esperienza mediata e indiretta, dal racconto dei familiari. Alcuni si sono detti: forse se nella mia vita ci fossero stati altri incontri, altri maestri, altri contesti, mi sarei potuto trovare da una parte o dall’altra della barricata.
Un incontro inaspettato
Prima del dialogo dell’assemblea con i relatori, un incontro inaspettato mi ha permesso un’importante opportunità. Pochi e profondissimi minuti, in cui lo sguardo di Adriana Faranda, mentre inaspettatamente la vedo e mi avvicino per salutarla, insieme al contatto delle mani, abbattono ogni distanza. Silenziosa e accogliente, aspetta che sia io a dire, trasmettendo una vicinanza senza ostacoli, eppure impegnativa.

Incarna pienamente quello a cui, poco prima alludeva p. Guido Bertagna: “L’ascolto disarmato”, diverso da quello a cui siamo abituati: ti ascolto con un orecchio, mentre l’altro già “elabora la risposta. …Non va bene, perché non aiuta sul discernimento. Si resta centrati su noi stessi, mentre il focus è su chi ascoltiamo, anche a costo di dire: “non ho una risposta pronta. Forse non ce l’avrò mai”.
Vederla così da vicino è stato sentirsi disarmati e insieme accolti
Il proposito di intervistarla, anche se lei aveva accettato, evaporava e perdeva di senso, perché “più delle parole, possono i gesti, i gesti sono sempre significativi”. Nel tenersi per le mani e sentirsi guardati, la sua testimonianza, apriva a una consapevolezza che riguarda tutti, come singoli, come comunità.
Invece di chiederle “ancora” qualcosa, più di quanto non avesse mai detto, in qualche modo cerco di spiegare che lei ha consegnato a ciascuno un cammino percorribile che dalla sterilità dell’incomunicabilità e della inimicizia si apre al disarmarsi, perché “non c’è nulla da difendere”.
La fisicità dell’ex Br è segno non solo di fragilità risolta
Sono state, con Agnese Moro, giovani insieme. Oggi il corpo narra la drammaticità di una storia, ora nell’assenza di Agnese perché malata, così le battaglie di Adriana, condotte dentro e fuori di sé. La discesa agli inferi, dove non solo lei, ma tutti noi, incontriamo la parte meno amabile, i fallimenti, il nemico che detestiamo e i fantasmi che ci abitano.
Quella giovane donna la cui immagine dai lunghi capelli neri, il bel volto fiero, dietro le sbarre, si era impressa nel nostro immaginario, oggi lascia il posto a una donna che si appoggia al bastone che dice la fatica di un cammino dall’“irreparabile”, verso una porta di speranza e riconciliazione.
Questa esperienza umana è paradigma per noi
Non è mai conclusa e realizzata pienamente, le guerre quanto mai oggi, insanguinano la terra. Facile seguirle sui media. Arduo riconoscere quei campi di battaglia, dentro e fuori di noi. Si ferisce e si uccide l’altro non solo con le armi, ma anche con le parole. Sono proiettili e macigni, coltelli e spade che provocano ferite, fratture profonde.
Gli anni di piombo possono esplodere quando meno te lo aspetti, la P38 esplodere anche sul fratello più vicino e per il motivo più futile, quando tutto sembra procedere per il meglio. Agnese e Adriana usano una parola con cui identificano incredibilmente le loro esperienze.
Lo spiega la figlia di Aldo Moro: “Irreparabile per me è che mio padre non torna. Ma c’è l’irreparabile per chi ha sparato e quei colpi non possono tornare indietro. La forza dell’incontro è che noi abbiamo un problema comune: fronteggiare le conseguenze dell’irreparabile. Quello che l’irreparabile ha prodotto nelle nostre vite. Non solo che le persone non ritornano. Ma che fai fatica a capire che è davvero irreparabile, non ci puoi fare niente! Sono cose che se non le curi non si fermano. Le chiamo scorie radioattive, perché come le scorie del nucleare, se non le fermi distruggono vite”, aggiunge: “Per tantissimi anni, una parte di me è rimasta immobile tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, non si poteva muovere. Questo ha delle conseguenze. È qualcosa che ti può risuccedere ogni giorno. Questa presenza di un passato vivo e operante con tutta la varietà di sentimenti, odio, rancore, disgusto, disperazione, senso di colpa. Mio padre non è morto sotto casa. È vissuto 55 giorni, per quanto ci siamo sforzati, a casa non è tornato. Lo sento come una responsabilità mia: cosa altro potevo fare? Questi sentimenti mantengono vivi tutti i fantasmi che si sono creati. E loro nelle loro gabbie, sembravano indifferenti al nostro dolore… tutta questa roba cerchi di chiuderla dentro. Non poteva arrivare ai figli. Pensavo di proteggerli. Ma il silenzio non parla. Urla! Ho capito che ho sbagliato, che questa storia se la portano addosso”. Sbagliamo a congelare le offese, le ferite, a non cercare una narrazione. A cercare guaritori feriti che se ne occupino.
“Quanto ho desiderato questo incontro!”
Agnese accetta l’incontro, si prepara a questo, lei che è il “rimprovero vivente” per Adriana, entra nella stanza e si sente dire: “Quanto ho desiderato questo incontro!”, quasi ci fosse Gesù a spalancare la porta. Non c’era più soltanto il suo dolore congelato. “Dimmi quello che vuoi”. “Lo sai chi mi hai tolto? Chi era quella persona per me?”. Non era una divisa, un nemico politico da abbattere. Era una persona che qualcuno amava.
Ma adesso Agnese lo sa: il dolore non era solo il suo. Nessuno è solo quello che ha fatto, “tu sei molto altro”. Così, piano si apre una crepa nella stanza chiusa di Agnese, forse può aprirsi in ciascuno, là dove seppellisce le ferite non curate delle nostre comunità. Di fronte al nemico, possiamo far annegare il colpevole e restare per sempre nel lutto. Invece, non c’è più nulla da difendere. Solo la totale e reciproca resa. Questo è liberarsi dei chiodi del passato. Respirare di nuovo. Tornare a casa, alla pienezza delle relazioni. La ragazza di 25 anni a cui ancora non era stato strappato il padre violentemente.
L’altra, al prima della propria perdita paterna, che in qualche modo, ne ha segnato le scelte. “Impara a perdonarti. A pensarti con indulgenza”. Non importa quale delle due l’ha detto all’altra, perché nell’incontro c’è la possibilità di portare insieme il fardello e ridare fertilità al dolore. “Ciascuno è la possibilità di andare oltre, avanti per sempre”. Per loro. Per noi.